LETTERATURA

Isole nella corrente

di Ernest Hemingway

approfondimento: Pensieri nella corrente


A Cuba con mia moglie, in un indimenticabile maggio del 1992, potei finalmente visitare Finca Vigia, la residenza cubana di Ernest Hemingway, mimetizzata da un meraviglioso giardino tropicale a circa venti chilometri da La Habana, che “Papa” (il nomignolo con il quale era conosciuto lo scrittore) donò a quel paese nell’estate del 1960, un anno e mezzo dopo la revoluciòn.

Non mi dilungo sulle sensazioni, molteplici e in qualche misura violente, che provai quel giorno, e mi limito a dire che il tour accompagnato anticipava in qualche modo un’eccezionalità di percezione del tutto proporzionata al personaggio: volendo preservare l'integrità dei locali, non era data la possibilità di accedere all’interno, ma tutte le finestre sul perimetro della casa erano aperte, dando ai visitatori quasi l’illusione di spiare la vita privata di chi si era assentato solo per poco.

Ma non ero intento ad un’osservazione serena, e mi resi conto che stavo invece verificando la corrispondenza tra quanto era alla mia vista e quanto avevo acquisito su Hemingway negli anni precedenti.

Tutto pareva immobile nel tempo e mi tornava tutto, direi terribilmente tutto: le armi e i trofei di caccia, la divisa del primo conflitto mondiale e i fregi delle milizie repubblicane nella guerra civile spagnola, le bozze corrette a mano di alcuni dei romanzi più famosi e le lettere di tanti potenti dell’epoca, le riviste sportive e, giù in giardino, le tombe dei suoi cani e la barca Pilàr; le bottiglie di liquore, perfino. E allora, dov’è l’incompiuto? Non c’era per niente, anzi mi affliggeva un senso di compiuto e di definitivo che, avviandomi all’uscita, trovai il modo di discutere con il funzionario del governo che ci aveva accompagnato, un giovane di notevole cultura e passione equivalente, al quale dissi “Per me, “Papa”, quando lasciò questa casa, aveva già deciso di uccidersi” (sarebbe successo poco più di un anno dopo nella sua residenza di Ketchum, Idaho).

Lui mi guardò, per nulla sorpreso, e prima di darmi una risposta data probabilmente molte altre volte, mi chiese per quale motivo pensavo questo. “Perché la sua vita è rimasta in quella casa. Perché mai avrebbe dovuto lasciarla qui, e regalarla ad altri?”, dissi io. Lui sorrise e in un francese quasi perfetto mi disse: “Lavoro qui da due anni, e anche se molti non sono d’accordo, ormai penso anch’io la stessa cosa”.

Il desiderio feroce di visitare ciò che vent’anni dopo mi avrebbe dunque introdotto alla disperazione compiuta di Hemingway, più ancora che dai suoi capolavori (Fiesta, Addio alle armi, I racconti di Nick Adams, Per chi suona la campana), mi fu dato dal suo incompiuto Isole nella corrente, pubblicato postumo nei primi anni ’70.

Concepito originariamente come un progetto di quattro libri costruiti intorno a quei luoghi, e, possibilmente, allo stesso protagonista, “Papa” riuscì a completare solo Il vecchio e il mare, decisivo per il giudizio sulla sua carriera che nel 1954 fu premiata da un Nobel tra i più meritati della storia, mentre gli altri tre rimasero incompiuti.

“L’isola e la corrente” (questo era il titolo inizialmente voluto dallo scrittore) non è stato quindi corretto, impaginato, e reso definitivo dal suo autore, da sempre preoccupato di accumulare manoscritti in cassaforte per scacciare l’incubo di una vecchiaia senza successo e senza denaro, e questo sicuramente ha sempre pesato nel giudizio critico dell’opera che, organica o no (qualcuno scrisse che "questo libro dobbiamo leggerlo con l'occhio indulgente di chi ha scassinato il cassetto di un amico per leggere la sua posta”), io ho sempre trovato bellissima.

Lasciato da Hemingway fra le sue carte, il romanzo è costituito da 3 episodi o parti, chiaramente autobiografici, ambientati nel gruppo delle isole Bimini, una piccola parte dell’arcipelago delle Bahamas, incastrato tra Cuba e la Florida, nel mezzo della Corrente del Golfo. Nel primo di questi, “Bimini”, Thomas Hudson, pittore, tormentato dall’agenda della sua vita piena di errori (che gli vengono puntualmente ricordati dagli assegni per gli alimenti alle varie mogli lasciate sparse un po’dovunque), è impegnato a disegnare alcune tipiche atmosfere hemingwayane (azioni, dialoghi, esistenzialità, dolore da “duri”) in collaborazione con lo scrittore Roger Davis e con Bobby, il padrone del bar dove si ritrova abitualmente il terzetto, nell’attesa dell’arrivo sull’isola dei suoi tre figli.

La convivenza coi ragazzi, nella quale Thomas, forse a sorpresa, mostra qualità e sentimenti paterni senza imbarazzo alcuno (ed in particolare il rito iniziatico della caccia al pesce spada con uno di loro è diventata una pagina classica dell’epopea di “Papa”) viene alterata dall’arrivo della bella di turno, Audrey Bruce, con la quale lui decide di andarsene dopo la partenza dei ragazzi. Poco tempo dopo, verrà raggiunto dalla notizia della morte di due di loro con la madre in un incidente a Biarritz.

Il secondo, “Cuba”, vede Hemingway/Hudson impegnato con se stesso, prima nella rievocazione di un flirt avvenuto molto tempo prima con una principessa, poi a dialogare con una prostituta dal cuore d’oro, Honest Lil, e in ultimo nell’incontro con la prima moglie, per lui ancora l’amore vero e irrinunciabile. A lei, venuta sull’isola a recitare per le truppe, Ernest/Thomas comunicherà, dopo una notte insieme, la morte del figlio al fronte, in Normandia.

Il terzo episodio, “In mare”, descrive il protagonista alla guida della sua imbarcazione, con alcuni irregolari americani, alla caccia di marinai tedeschi dispersi nello scontro finale con i quali resterà ferito, forse mortalmente. Il più direttamente autobiografico, nelle intenzioni di Hemingway, per l’ostinato orgoglio con il quale più di una volta raccontò del suo impegno diretto a fianco dell’esercito americano, nel 1942, nella perlustrazione del mare di Cuba con la sua Pilàr (imbarcazione per la pesca d’alto mare che per l’occasione armò di bazooka, granate, bombe e mitragliatrici) a caccia di sottomarini tedeschi; vicenda, sembra, meno drammatica ed eroica di quanto lui amasse far credere.

“Isole nella corrente” è una sorta di antologia dell’estetica e dei contenuti hemingwayani, così come delle paure e delle contraddizioni che gli avrebbero consumato la voglia di resistere.

Un libro divertente, per molti versi: il golfo (il “grande fiume blu”, come amava chiamarlo), i marlin, la guerra, il mojito e il daiquiri, le donne bellissime, la solitudine, i viaggi, le risse, la passione; l’umorismo, anche.

Un libro “cinematografico”, quasi, ché quando lo leggi non puoi fare a meno di assegnare ai protagonisti i volti di Clark Gable e Marlene Dietrich e non pochi episodi ti riportano alle situazioni canoniche della grande Hollywood.

Eppure, non ci vuole una sensibilità straordinaria per scorgere, dietro questa narrazione quasi abbagliante, i terribili fantasmi di sempre: il fallimento dell’esistenza, la morte, che in questa finzione gli porta via i tre figli e una moglie, e soprattutto la consapevolezza della sconfitta ultima rispetto alla quale, però, emerge la serietà dei personaggi che può sfuggire ad una lettura superficiale dei suoi testi. I protagonisti di Hemingway, infatti, danno un significato preciso a ciò che fanno, hanno dei riferimenti immutabili per la propria esistenza, impongono a sé e agli altri la rinuncia alla simulazione e all’autogiustificazione, credono all’onestà dei propri comportamenti e a poche e ferme regole di rapporto alla comunità e alla natura.

Nei botta e risposta solo apparentemente banali dei dialoghi si fa strada non una religione, ma una morale laica, altrettanto se non più forte, che vede i suoi personaggi cercare di rappresentare correttamente e conseguentemente se stessi nelle proprie azioni, pur consapevoli che probabilmente non servirà a nulla. Thomas Hudson, l’inglés che lotta per la repubblica spagnola, il pescatore Gregorio Fuentes sono la stessa persona, che pretende la dignità del proprio essere anche soltanto attraverso l’applicazione della propria vita alle regole, manifeste o non dette, rischiando ciò che deve essere rischiato, senza pretesa di ricompensa alcuna.

Disse Calvino, proprio nel 1954:

"C’è stato un tempo in cui, per me, e per molti altri miei coetanei, Hemingway era un dio sta di fatto che la lezione che da lui ricavavamo era di un’attitudine aperta e generosa, d’impegno pratico, tecnico e morale insieme, nelle cose che si dovevano fare, di limpidezza di sguardo, di rifiuto a contemplarsi e a compatirsi, di prontezza a cogliere un insegnamento di vita, il valore di una persona in una frase bruscamente scambiata, in un gesto".

Può esistere, del resto, grande letteratura che non abbia in sé valenza morale?

Michele Caprini

Ernest Hemingway

Ernest Hemingway



La Finca Vigia

La Finca Vigia



Hemingway con uno dei suoi gatti

Hemingway con uno dei suoi gatti



Il Floridita

Il Floridita



Ernest Hemingway e Carlos Gutierreza bordo della Pilar

Ernest Hemingway e Carlos Gutierreza bordo della Pilar



Ernest Hemingway e Fidel Castro

Ernest Hemingway e Fidel Castro