MUSICA

Creuza de Ma

Fabrizio De Andrè

recensione

Nell'umido mantello dell'alba
si possono udire grida rauche di sale...

"...spingi, tira, spuncia, molla, dai... "

Lo sforzo ritmato, consueto, tra lo sciabordìo delle onde,
una barca tirata a riva, rituale immutato nei secoli
al di qua e al di là del Mediterraneo...

"...e-anda, e-e-anda, e-e-e-anda, e-oh...."

mentre la vela obliqua del leudo si riposa dal vento,
lo scafo finalmente spiaggiato...

"Creuza De Mä" parla di marinai, di pescatori, di mercanti e del loro ritorno a casa in un'atmosfera carica della rassegnazione di chi è costretto ad un viaggio senza fine, una condanna eterna in cui i ritorni sono solo istanti per sfogare gli istinti troppo a lungo sopiti ed occasioni per riassaporare la fragranza del cibo e bere vino. Ma parla anche del microcosmo che ruota attorno a loro, dei personaggi dell'angiporto, dei dispersi, dei disperati, dei condannati a vita. E non parla soltanto di luoghi e di persone, ma ci conduce attraverso i suoni tipici dei quartieri e dei mercati, gli odori delle banchine e dei vicoli, l'umidità dei muri e dei sentieri tra le case abbarbicate ad uno spuntone di roccia a pochi metri dal mare...

E' uno degli album più affascinanti e coinvolgenti nel panorama italiano del secolo scorso ed è stato inserito da David Byrne, fondatore dei Talking Heads e fine ricercatore non solo in campo musicale, tra i dieci dischi più importanti degli anni ottanta.

"Creuza De Mä" esce infatti nel 1984 da un progetto comune condotto da Fabrizio e da Mauro Pagani, compositore, arrangiatore, polistrumentista, già fondatore, cantante, flautista e violinista della P.F.M., una collaborazione che proseguirà poi sino al 1999, anno della morte di De André. Pagani riversa in questo album tutto il suo lavoro di ricerca sulla musica etnica mediterranea: le arie si avvalgono infatti dell'apporto di strumenti della tradizione popolare mediterranea, dalle coste del nordafrica, a quelle balcaniche, elleniche e mediorientali, per un'opera senza tempo e senza confini al di fuori da ogni regola del mercato discografico.

L'uso di una tale strumentazione fa intuire che l'album non parli di Genova, pur se è cantato in lingua genovese, ma di tutte le città di mare che affacciano sul Mediterraneo, di culture diverse, ma affratellate tutte da ritmi, gesti, vocaboli che si sono mischiati e uniformati per necessità e per affinità. Le città di mare e i loro porti sono tutte diverse, ma in esse batte uno stesso cuore antico.

Anche l'uso della lingua genovese con la ricerca di termini arcaici spesso difficili da comprendere pure per i nativi, diventa una scelta naturale se si pensa a quanti termini mutuati dall'arabo, dal greco, dal portoghese e dal catalano vi siano presenti e sopravvivano ancora oggi. Il genovese di "Creuza De Mä" è una lingua popolare universale, la lingua della sventura e della miseria, dell'emarginazione e della sconfitta che trova alla fine il proprio riscatto o una dignità celata, temi ricorrenti in tutta la discografia di De André.

Creuza De Mä (Vicolo di mare)

"Ombre di facce, facce di marinai, da dove venite, dov'è che andate?
Da un posto dove la luna si mostra nuda e la notte ci ha puntato il coltello alla gola
e a montare l'asino c'è rimasto Dio, il diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido..."

Il brano si apre con il lamento solitario di una gaida, zampogna in uso fra i pastori della Tracia che genera un suono simile a quello delle launeddas sarde. Il basso introduce la ritmica, tipica della "tammurriata" napoletana, con un andamento più lento e con l'aggiunta di sonorità fortemente mediterranee ottenute con intarsi di bouzouki tra una strofa e la successiva.

E' il ritorno a casa dei marinai, dopo mesi passati in mare. La terra ferma provoca in loro sempre un senso di diffidenza, ostilità verso un mondo che cambia, loro così abituati ad un presente immutabile stretto nel fasciame dello scafo. E l'occhio sbieco osserva i "foresti" con diffidenza, quella "gente di Lugano, facce da tagliaborse, quelli che della spigola preferiscono l'ala" e le ragazze di buona famiglia, quelle dei quartieri alti, così sante e irraggiungibili "che puoi guardarle senza preservativo". Il ritorno a casa è anche l'occasione per riassaporare il cibo per troppo tempo dimenticato, cibo povero, rimediato, ma gustoso...

"E a queste pance vuote cosa gli darà? Cose da bere, cose da mangiare:
frittura di pescetti, bianco di Portofino, cervella di agnello nello stesso vino,
lasagne da tagliare ai quattro sughi, pasticcio in agrodolce di lepre dei tetti... "

E il vino è l'acqua in cui affogare la noia della navigazione, battute per ingannare il tempo, ma con la nostalgia sempre accucciata a fianco, nell'attesa di un ennesimo ritorno...

"E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli, emigranti della risata con i chiodi negli occhi,
finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere, fratello dei garofani e delle ragazze,
padrone della corda marcia d'acqua e di sale che ci lega e ci porta in un vicolo di mare..."

"...e-anda, e-e-anda, e-e-e-anda, e-oh...."

Il brano si chiude con l'atmosfera, gli odori, i suoni e le voci del mercato del pesce di Piazza Cavour a Genova.

J Jamin-a

L'atmosfera è decisamente mediorientale in questo brano dedicato a Jamin-a, giovane donna algerina, non prostituta, ma regina dell'amplesso, la donna che ogni marinaio sogna di incontrare in ogni porto, una sorta di ricompensa dopo i lunghi mesi trascorsi in un mare qualche volta amico, spesso pericoloso, navigato come affrontando un male che risucchia tutte le energie ed i pensieri e fa contorcere le viscere.

La ritmica è ipnotica, l'armonia affidata all'oud e al bouzouki, strumenti a corda di tradizione araba e greca, discendenti entrambi dal liuto, il primo a 11 corde e manico corto, il secondo a 8 corde e manico lungo, e all'ossessionante cantilena dello shanaj turco, flauto dal suono avvolgente e sinuoso.

"Lingua infuocata Jamin-a, lupa di pelle scura,
con la bocca spalancata, morso di carne dura,
stella nera che brilla, mi voglio divertire
nell'umido dolce del miele del tuo alveare..."

Il corpo di Jamin-a è protagonista, "morso di carne dura", in un gorgo di suggestione erotica e sonora che avvolge tutto come un lenzuolo sudato. E nell'intimità di una stanza, nel vortice della passione, anche gli insulti più sferzanti, le frasi più dure, diventano carezze.

"Fà piano Jamin-a, non navigare di sponda,
prima che la voglia che sale e scende non mi si disfi nell'onda
e l'ultimo respiro Jamin-a, regina-madre delle sambe,
me lo tengo per uscire vivo dal nodo delle tue gambe..."

Sidun (Sidone)

Il rombo di un missile squarcia il cielo e spezza irrimediabilmente l'atmosfera.

Il nome di Sidone, città libanese distrutta e ricostruita decine di volte in battaglia, le voci di Reagan e Sharon e i rumori dei carri armati in apertura del brano, ci riportano ai nostri giorni ed al dramma della guerra israelo-palestinese. Il campo profughi palestinese nel quale entrano i carri armati israeliani è simbolico perché una madre che piange la morte del proprio figlio è un dramma che non ha né confini né connotazioni politiche o religiose.

E' il punto più alto dell'album e il dolore è accresciuto dal suono metallico del bouzouki e dalla voce di Fabrizio che, di solito profonda e stentorea, qui assume un tono dimesso e straziato.

Il bouzouki introduce un canto solitario...

"Il mio bambino, il mio, il mio
labbra grasse al sole di miele, di miele,
tumore dolce e benigno di tua madre,
spremuto nell'afa umida dell'estate, dell'estate
e ora grumo di sangue, orecchie e denti di latte..."

La violenza, l'uccisione di un bambino, non ha mai una ragione se non nell'odio viscerale che va oltre ogni immaginazione e che identifica nel nemico di turno la "specie" da estinguere...

"e gli occhi dei soldati, cani arrabbiati con la schiuma alla bocca, cacciatori di agnelli,
a inseguire la gente come selvaggina finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia
e dopo il ferro in gola, i ferri della prigione e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
perché di nostro, dalla pianura al mare, non possa più crescere né albero, né spiga, né figlio..."

Quale futuro potrà mai esserci per una popolo che uccide e consente di uccidere i propri figli?

"Ciao, bambino mio, l'eredità è nascosta
in questa città che brucia, che brucia,
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco per la tua morte piccina..."

E il coro finale, dall'impostazione tradizionale sarda, ci racconta di una tragedia senza fine e senza ritorno, di uno strazio senza tempo e senza confini...

Sinàn Capudàn Pascià

E' la storia vera, o leggenda, di un nocchiero genovese del XV secolo detto Cicala, in genovese Çigä, che, davanti a Messina, in uno scontro con i turchi, invece di combattere al fianco dei suoi compagni, si arrende subito al nemico.

"Teste fasciate sulla galea,
le sciabole si giocano la luna.
La mia è rimasta dov'era
per non stuzzicar la fortuna..."

Un inno all'opportunismo sottolineato dalla filastrocca del ritornello:

"In mezzo al mare c'è un pesce tondo
che quando vede brutto va sul fondo,
in mezzo al mare c'è un pesce palla
che quando vede bello viene a galla...."

Viene fatto prigioniero e messo ai remi, ma un giorno, per un puro colpo di fortuna, riesce a salvare la vita del Sultano e viene nominato Pascià, anzi Sinàn Capudàn Pascià. Spesso la distanza tra fortuna e sfortuna è solo lo spazio che separa la faccia e il rovescio di una moneta lanciata per aria...

"Amore mio, bell'amore, la sfortuna è un grifone
che gira intorno alla testa dello stupido,
amore mio, bell'amore, la sfortuna è un cazzo
che vola intorno al sedere più vicino..."

E quando la vecchiaia si avvicina, Cicala sente il bisogno di giustificare le sue scelta di vigliaccheria ed opportunismo, respingendo l'accusa di essere un rinnegato per essersi convertito all'Islam:

"E digli a chi mi chiama rinnegato,
che a tutte le ricchezze, all'argento e all'oro,
Sinàn ha concesso di luccicare al sole,
bestemmiando Maometto al posto del Signore".

A pittima (La pittima)

Si ritorna nei vicoli scuri della città per osservare la figura di un altro sconfitto, la "pittima", ovvero l'esattore per conto degli usurai, carnefice e vittima allo stesso tempo, costretto a questo lavoro dal suo fisico minuto.

L'introduzione è solo percussioni e bouzouki.

"Cosa ci posso fare
se non ho le braccia per fare il marinaio,
se in fondo alle braccia non ho le mani del muratore
e ho un pugno duro che sembra un nido,
ho un torace largo un dito
giusto per nascondermi con il vestito dietro a un filo..."

Così inadatto a quel mestiere pericoloso, come a qualunque altro lavoro, così pieno di paura da affrontare i debitori solo di giorno ed in mezzo alla gente, spesso aggredito ed insultato dalle sue stesse vittime.

L'incedere incerto della musica, quel flauto di canna che zoppica e procede a tentoni, sottolinea in maniera perfetta il ritratto di un uomo impaurito che cammina rasentando i muri per potersi proteggere le spalle.

"E vado in giro a cercare denari
da chi se li tiene e glieli hanno prestati
e glieli domando timidamente, ma in mezzo alla gente..."

Ma anche un mestiere meschino, soprattutto se fatto per necessità, può celare aspetti insospettabili...

"..e non andare in giro a raccontare
che quando la vittima è uno straccione gli do del mio.."

A dumenega (La domenica)

Finalmente la domenica, non si esce in mare. E' il giorno in cui si indossa il vestito della festa, sempre lo stesso, sempre fuori moda, sempre o troppo lungo o troppo stretto, sempre improbabile su quei volti scuri in ragnatele.

E ci si riunisce sulle panchine e sui muretti del lungomare perché i caffé sono solo per i signori. Dai gozzi, sulla spiaggia, viene un odore particolare, un misto di pesce, di alghe e di vernice scaldata dal sole. Da lì si osserva il passeggio delle prostitute che, relegate per tutta la settimane nel quartiere della Rebecca a Genova, la domenica vengono accompagnate dalla maitresse in giro per la città, vestite come gran dame, tra i lazzi e lo scherno di coloro che nei giorni feriali sono i loro clienti abituali.

"e più si addentrano nella città,
più occhi e voci gli danno dietro,
gli dicono quello che non possono dire
di giovedì, di sabato e di lunedì..."

Il ritmo è allegro, popolare, da festa del paese, la domenica è la festa, festa dal lavoro, ma anche e soprattutto festa religiosa. E in mezzo a quella folla deridente e divertita, di bigotti e di mangiapreti, si mischiano anche i notabili, quelli che sanno che, con i proventi dei bordelli, il Comune finanzia la maggior parte dei lavori del porto....

"e il direttore del porto che ci vede l'oro
in quelle chiappe a riposo dal lavoro,
per non fare vedere che è contento
che il molo nuovo ha il finanziamento,
si nasconde nella confusione
con l'occhio pieno di indignazione
e gli grida, gli grida dietro:
«bagasce siete e ci restate!» "

Ma come in molte delle storie narrate da Faber, il finale spesso è una sorta di vendetta del destino che, in un certo modo, ripaga i diseredati della loro condizione e dei soprusi che hanno dovuto e devono sopportare.

Tra la folla urlante c'è anche uno di quei ferventi cattolici che nelle processioni, per devozione e penitenza, si caricano sulle spalle una statua sacra. Improvvisamente, tra un insulto e un gesto irriverente, si accorge che in mezzo a quelle sventurate, che non hanno altro torto se non quello di guadagnarsi il pane con il loro corpo, c'è anche sua moglie....

"...e tu che gli sbraiti appresso:
«neanche più il naso avete di nuovo!»,
brutto stronzo di un portatore di Cristo,
non sei il solo che se ne è accorto
che in mezzo a quelle creature
che si guadagnano il pane da nude
c'è, c'è, c'è, c'è,
c'è anche tua moglie..."

Chiude il brano, uno splendido assolo di chitarra andalusa eseguito da Franco Mussida, anch'egli tra i fondatori della P.F.M.

D'ä me riva (Dalla mia riva)

...è l'alba ed è il momento di ripartire. Il tempo a terra è sempre troppo poco, non basta a riempire il vuoto accumulato nel viaggio precedente, ma serve solo ad accrescere rimpianto e rassegnazione.

Il brano, accorato e malinconico, è eseguito da Faber alla chitarra ottava. Sullo sfondo il frangere lieve del mare ed un coro sommesso, appena percettibile, come in lontananza...

Mentre il leudo si allontana dalla riva sospinto dal maestrale che gonfia la vela triangolare, il marinaio a poppa saluta ancora una volta la propria ragazza e la propria terra, ormai solo un profilo lontano, controluce. Nel petto malinconia e paura: ripartire è una certezza, ritornare solo un tiro di dadi.

"Dalla mia riva solo il tuo fazzoletto chiaro, dalla mia riva...
Nella mia vita il tuo sorriso amaro, nella mia vita...
Mi perdonerai il magone, ma ti penso contro sole
e so bene che stai guardando il mare un po' più al largo del dolore...

E son qui affacciato a questo baule da marinaio e son qui a guardare
tre camicie di velluto, due coperte e il mandolino e un calamaio di legno duro...
E in una berretta nera la tua foto da ragazza
per poter baciare ancora Genova sulla tua bocca in naftalina...."

Lo sguardo a un orizzonte salato.

Nella scia tremolante dei raggi di un sole freddo e immaturo, solo un punto in lontananza.

Una folata di vento, poi il nulla.

Starless

Creuza de Ma








Creuza de Ma
Tracklist

  • Crêuza de mä - 6:16
  • Jamín-a - 4:52
  • Sidún - 6:25
  • Sinàn Capudàn Pascià - 5:32
  • Â pittima - 3:43
  • Â duménega - 3:40
  • D'ä mê riva - 3:04
  • Musicisti:
  • Mario Arcari Shanai in Jamin-a
  • Aldo Banfi Synclavier
  • François Bedel Zarb e percussioni
  • Francis Biggi Consulenza strumenti etnici e medioevali
  • Walter Calloni Batteria
  • Dino D'Autorio Basso in Sinàn Capudàn Pascià
  • Fabrizio De André Chitarra ottava in D'ä mê riva e voci
  • Edo MartinYamaha GS-2
  • Franco Mussida Chitarra classica e mandolini elettrici in  duménega
  • Mauro Pagani Oud, saz, bouzouki, mandole e mandolini, violino a plettro, viola a plettro, Roland SPV-355, flauti, voci
  • Maurizio Preti Percussioni
  • Massimo Spinosa Basso
  • Introduzione a Creuza de mä da Aria per gaida sola (Tracia) del gruppo strumentale diretto da Domna Samiou (per gentile concessione Emial - Greece)


la biografia di
Fabrizio De Andrè