MUSICA

Monsieur le Swing

Il jazz e l’Europa

La globalizzazione, orribile neologismo usato a qualificare il nostro tempo e dividere le coscienze, è anche un fenomeno che oggi, nelle forme e nelle espressioni, tende ad imporre canoni di riferimento universali che finiscono spesso per avvilire o, peggio, cancellare tradizioni locali ricche ed affascinanti. Ma è sempre stato così?

Io credo che non ci fosse bisogno alcuno d’inventare questa parola, perché, forsennate accelerazioni a parte, è dalla rivoluzione industriale in poi che viviamo in un sistema sociale che contabilizza, esporta ed internazionalizza popoli, idee e contraddizioni; e nella scia di questo rullo compressore sono rimasti anche fermenti d’arte, d’ingegno, di vita che hanno trovato fertile applicazione dov’era logico che avvenisse o dove quando e meno te l’aspettavi.

Nella musica, il jazz è stato globalizzato prima di qualunque altro genere, e questo non deve certo stupirci, chè proprio nella più europea delle città americane si trova il certificato di nascita del jazz, che è internazionale già nelle sue origini per via della formidabile applicazione, in quelle regioni, delle antiche poliritmie popolari di gente che lì, a dirla tutta, non avrebbe dovuto esserci per nulla.

Certo non c’interessa, qui, proporre la storia di questa musica e dei come e perché del tempo sincopato, dell’improvvisazione solista sul tema o sull’armonia e dello swing, nè la poesia sporca e struggente di tanti suoi eroi, ma fare invece un bel salto nel tempo, e valutare il suo impatto sulla vecchia Europa, dove finì per rappresentare la naturale risposta alle richieste della modernità, rompendo le demarcazioni tra basso e alto, plebeo e colto che si erano costituite e consolidate da secoli.

Dal momento in cui superò Gibilterra, il jazz ha regalato al vecchio continente momenti irripetibili, nell’ambito musicale e non solo (nella mia esperienza personale, ad esempio, l’emblema di questa contaminazione resterà l’incontro di Miles Davis con il cinema francese, che avrebbe poi dato luogo alla splendida musica scritta su “Ascenseur pour l’échafaud” di Louis Malle).

Va detto che già prima, nel periodo fra il primo ed il secondo conflitto mondiale, Parigi, capitale internazionale dell’arte e della cultura, esibiva al mondo la propria eccezionale capacità di accogliere, mediare ed amalgamare esperienze “altre” (e proprio a quell’insuperata capacità di “mélange” si riferì il nostro Paolo Conte con la sua sottovalutata operazione culturale “Razmataz”). A confermarlo basti ricordare la figura di Django Reinhardt, famoso per la sua straordinaria tecnica chitarristica sviluppata nonostante la grave menomazione alla mano sinistra (aveva perso l’uso di due dita sfuggendo per un soffio all’incendio del suo carrozzone), che proprio a Parigi visse quegli anni, da lui dedicati a combinare la musicalità gitana delle sue origini con ciò che apprese dai musicisti di colore d'oltre oceano, a costruzione di un modello musicale ancora oggi inimitabile.

Il jazz era ormai da “prendere sul serio", come affermò sicuro Ravel dopo la sua tournée americana del 1928, e andava considerato come la vera musica classica di quel paese (ovvero riferibile in modo univoco ed inconfondibile alla tradizione popolare americana, la stessa cosa che il compositore francese pensava rappresentasse la sua musica per la Francia, alla pari, per esempio, di quella di Bartòk e Kodàly per l’Ungheria o quella di De Falla e Albeniz per la Spagna).

In ogni caso, nel “secolo più meticcio della storia” com’è stato definito il novecento, che ispira anche questo nostro giornale, il jazz riuscì a promuovere un incontro tra Africa e Occidente che superò poi l’ambito originario per avere sviluppi imprevisti: se l’improvvisazione diventerà elemento delle opere di Debussy, Strawinsky e Sostakovic, la nascita del cubismo sarà influenzata dalle sculture lignee africane.

Da quel momento in poi molti artisti afroamericani, (solo per citarne alcuni, Sidney Bechet, l' Art Ensemble of Chicago, Kenny Clarke, Ben Webster, Steve Lacy, Lester Young e Bud Powell; Dexter Gordon, dopo aver suonato con Powell a Parigi, paradossalmente si trovera’ a recitare la parte di questi ultimi vent’anni dopo, in “Round midnight”) trovarono in Europa una seconda patria, consolidando o aumentando, grazie al consenso avuto, la propria fortuna; al tempo stesso, avrebbero pensato di globalizzarsi alla rovescia molti musicisti europei, con il loro pellegrinaggio a New York, capitale indiscussa del jazz nel dopoguerra, che li meraviglierà per la maestria tecnica e la creatività di cui la metropoli americana, tra i ‘40 e i ’60, abbondava oltre ogni misura.

Detto del come e di alcuni quando, non possiamo pensare di tralasciare alcuni perché che la Storia ha accompagnato a quest’avventura.

L’interesse del continente vecchio e colto verso il jazz ha aspetti d’eccezionalità che non possono essere liquidati in due battute: perché di tutte le arti popolari e cittadine, la musica nera americana si è imposta meglio d’ogni altra? Non erano mancati, nel passato recente di quell’epoca, esempi di altre espressioni d’oltreoceano accolte favorevolmente magari con il benestare di strati sociali colti ed agiati. Già s’erano avvicendati il canto hondo andaluso di fine ‘800, il fado di Pinto de Charvalo all’inizio del secolo, il music hall tanto caro a Toulose-Lautrec, il tango ma per nessuno di questi fu tanto rapida, ad esempio, la pubblicazione di libri e studi al riguardo, che iniziò già nel 1926.

Due fenomeni giocarono probabilmente un ruolo decisivo: il primo riguardava il carattere americano del jazz, accolto quindi come esotico, primitivo, popolare e soprattutto moderno, un catalogo di suoni ed emotività inusuali che veniva dal paese che della rottura con la tradizione aveva fatto la premessa al futuro ricco e appagante che le generazioni post-belliche europee non vedevano. Il secondo, e ancora più importante, è che il jazz non si affermò, ai suoi esordi europei, come musica d’intrattenimento o semicolta per intellettuali, ma come musica da ballo, quale soprattutto in Inghilterra fu accolta, fino a dare luogo a veri e propri fenomeni di costume estesi a tutti i gruppi sociali, e a costituire una classe di musicisti professionisti e semiprofessionisti che nel 1930 superò le 30.000 unità. Di fatto, in Europa, grazie anche alla diffusione di questo modello inglese e al suo eroe Jack Hylton, un operaio diventato musicista professionista nel 1921 (e che finì per vendere dischi quanto e più delle big band americane), il jazz nelle sue espressioni più semplici divenne, fino all’avvento del rock’n roll, la musica sociale di base per le giovani generazioni, replicando dagli anni venti in poi quello che in età vittoriana era stato il valzer. Secondo Eric J. Hobsbawm (storico inglese cui devo tanto, e di più) "la moda della danza immise automaticamente l'idioma afro-americano nella musica leggera" e le classi sociali in ascesa lo assumevano quale nuovo modello culturale.

Se il jazz non fu considerato soltanto come un'altra espressione della musica leggera, ma venne, di fatto, elevato al rango di simbolo, attirando le attenzioni del mondo culturale, ne conseguì quasi automaticamente l’ostilità dei ceti più reazionari e la sua iscrizione nel novero delle arti sospette, invise alla dittatura affermatesi prima della seconda guerra mondiale. Eric J. Hobsbawm (andatevi a leggere, se mai lo trovate, il suo “Storia Sociale del Jazz”, Editori Riuniti, 1986) è convinto che dietro i catoni censori della musica sincopata, si avvertisse in realtà la stessa ostilità di Goebbels (che aveva bandito in Germania la musica sincopata come "entartete musik", musica degenerata, poiché di matrice definita "giudeo-negroide”), del rabbino newyorchese Stephen Wise ("Quando l'America avrà ritrovata la sua anima, il jazz scomparirà, e non prima; vale a dire che sarà relegato negli antri oscuri e scarlatti donde è venuto"), e delle stesse leaderships del movimento operaio e della sinistra (Lunaciarskij, praticamente il responsabile artistico dell’Internazionale Comunista sosteneva che il jazz era "Un ritmo piuttosto complesso, basato su una meccanicità esasperata [...] ispirata proprio al ritmo delle macchine. Questi ritmi hanno la stessa funzione che ha la macchina nelle mani della borghesia: sono disumani, annichiliscono la volontà del singolo").

Un pericolo per tutti, insomma, legato soprattutto all’identificazione di questa espressione con “i comportamenti” che induceva: affermatosi anche da noi come straordinario propulsore alla danza (a Torino, negli anni trenta erano comunque arrivati ad esibirsi, con un successo senza pari, Sidney Bechet e Duke Ellington), dopo il 1938 è bandito tout court il musicista Gorni Kramer (uno dei primi e principali propulsori del jazz in Italia, come fisarmonicista e band-leader, prima di divenire l’indimenticabile autore dei musical di Garinei e Giovannini), avendo eseguito tutto un intero repertorio di musiche “sincopate” durante una trasmissione serale fu allontanato per sempre dai microfoni dell'Eiar.

Bene, quando appaiono Charlie Parker e Dizzy Gillespie, questo processo, per certi versi eroico, è ormai alla spalle, e con l’esercito americano arriva la musica delle rassicuranti big band, per lo più bianche, che restituiscono il ballo e il respiro a popolazioni cittadine che delle logiche bebop non possono sapere nulla e che certo avrebbero trovato difficoltà a fare con i boppers quello che facevano con il foxtrot.

E a questo punto si chiude il cerchio: la musica, e gli atteggiamenti, che “Bird” e soci seguono in patria sono radicalmente neri, fino a sfiorare il razzismo (interessanti le difficoltà dell’appartenenza alla band di Miles Davis denunciate da Bill Evans ancora negli anni ’60 e il caso ai limiti del credibile di Red Rodney, che girando con Parker nelle tappe del sud doveva dipingersi di nero, ancora nei primi ‘50), e coprono una fascia di mercato piccola e impossibile ad essere recepita in un continente bianco dove i ritmi “negroidi” e la musica “sincopata” erano stati vissuti come tramite di libertà e di divertimento, e non di conflittualità aggiunte e sintassi incomprensibili. Da quel momento in poi, il jazz diventa oggetto di consumo di élites sociali o culturali che l’”incomprensibilità” riuscivano a decifrare o a sbandierare come orgogliosa diversità alle tradizioni nazionali.

Via libera a Malle e a Jeanne Moreau, dunque, che, con aristocratico distacco dalle metriche suadenti e dolcemente ossessive del rock’n roll, battezzeranno con i propri comportamenti e le proprie scelte artistiche la nascita di una èlite europea di espressione e consumo che, paradossalmente, in più di un’occasione, restituirà a questa musica una centralità ormai dura a trovarsi negli States al di fuori dei circuiti specializzati.

E così, dopo che il mercato interno americano avrà riconosciuto al jazz i minimi storici della sua commercializzazione, fino a scendere sotto il 3% delle vendite totali, e dopo che Hollywood lo marginalizzerà a supporto folkloristico di storie di per sé autosufficienti, come successe nelle pellicole di illustri film makers (“Cabin in the sky”, “Alta società”, “New York, New York”), l’Europa della cultura risponderà in assoluta controtendenza.

La creazione ed il consolidamento di un mercato continentale ben più largo del semplice “culto” videro l’origine di una scommessa editoriale senza precedenti: la tedesca Ecm di Manfred Eicher, che dalla Baviera iniziò producendo i lavori, in alcuni casi eccezionali, di Keith Jarrett, Chick Corea, Gary Burton, Bill Frisell, Art Ensemble of Chicago, e che quindi da questa esperienza partirà per sviluppare una musica europea grande e raffinata, che valorizzerà i suoni del grande nord continentale, delle ex Repubbliche sovietiche, dell'Est crocevia di tradizioni ebraiche, culture ortodosse e ritmi orientali. Forse solo l’attuale avanguardia di downtown Manhattan riesce a competere con l’innovazione ECM, che negli anni ha inevitabilmente promosso a rango internazionale musicisti come Jan Garbarek, Terje Rypdal e Bobo Stenson.

Nel frattempo i festival jazz diventano prassi consolidata (Montreux e Umbria Jazz sono da decenni fenomeni di portata internazionale) e permettono di misurare, nel confronto sul palco con i grandi americani l’affermazione di una classe di musicisti europei di valore assoluto: impossibile non ricordare, oltre al vero e proprio vivaio di talenti ECM, la stella luminosa del pianista francese Michel Petrucciani, gli innumerevoli contributi di musicisti e gruppi inglesi, troppo numerosi per essere qui trattati e, perché no, la scena italiana.

Nel belpaese il pianista Giorgio Gaslini fu tra i primi seguaci del bebop in Italia, Franco D’Andrea ed Enrico Pierannunzi si formarono sulla linea di un hard bop di alto livello, e dopo di loro molti musicisti hanno contributo allo sviluppo di una scuola italiana del jazz, tutt’ora attivissima e forte anche di un ragguardevole retroterra teorico e critico (oltre alla figura di Mila, doverosa la citazione per Giancarlo Testoni, cofondatore nel 1945 di “Musica Jazz”, la più importante rivista italiana e di Arrigo Polillo, autore di un testo importante come “Jazz”, del 1975).

Anche il cinema fa la sua parte: lo straordinario e imprevisto successo della colonna sonora di “Ascenseur pour l’échafaud” fu l’inizio, in Francia, di una breve ma trionfale stagione di polizieschi e noir la cui musica era fornita proprio da alcuni tra i più celebri jazzisti statunitensi di passaggio a Parigi; un film insignificante come “Des Femmes Disparaissent”, un giallo del 1959 di Edouard Molinaro, sarebbe caduto immediatamente nel dimenticatoio, ma le immagini furono in questo caso accompagnate addirittura dalla splendida musica dei Jazz Messengers del batterista Art Blakey, in una delle sue formazioni più belle, con Lee Morgan alla tromba e Benny Golson al sax tenore.

Lo stesso Molinaro si riscatta però con il successivo lavoro, “Un Témoin dans la Ville” (“Appuntamento con il delitto”, 1960), interpretato da Lino Ventura e Sandra Milo, per il quale fu riunita un'autentica all-stars del jazz dell'epoca: dagli USA furono chiamati il trombettista Kenny Dorham e il pianista Duke Jordan, veterani del quintetto di Charlie Parker per essere affiancati al batterista Kenny Clarke, parisien d’adozione.

Truffaut e altri grandi non lesinano attenzioni al jazz e a metà degli anni ottanta arriviamo a “Round Midnight” di Bertrand Tavernier, esempio insuperato di un film jazz, non sul jazz: impresa in cui già molti erano caduti nel manierismo o nella sonnolenza, e per di più nell’obiettivo di dare una lettura psicologica, etica ed estetica del be-bop, che del jazz, dopo il free, è sicuramente il comparto più difficile.

Strana storia, quella della Francia di St. Germain des Prés e degli eroi del jazz, fatta di scambi ed influenze apparentemente impossibili: gli uni assumevano dal jazz la vitalità estrema e irregolare importata dagli estremi e irregolari come Boris Vian, gli altri cercavano un’ambita certificazione ed il fermo riferimento della musica colta, entrambi vissero e vivono una passione senza freni, spiegata solo un po’, come tutte le passioni che si rispettino, ed emblematicamente rappresentata dalla vicenda di Miles Davis e Juliette Greco: la cantante dell’esistenzialismo non conosceva una parola d’inglese, meno che mai quello che si parlava a St. Louis più che a Boston e a New York, per Miles il francese era un affascinante enigma. Eppure si amarono alla follia, con gli sguardi, le mani, i gesti. Poi finì, sappiamo quando, non il come né il perché, categorie dell’indagine sulla vita che le passioni mal sopportano, e Miles lasciò Parigi per tornare a casa, dove ebbe una violenta depressione, e di lì a poco fu intrappolato dall'eroina

Di pochi anni successivo a “Round midnight” lo struggente “Bix” di Pupi Avati, che pone al centro della scena la storia di uno di grandi pionieri del genere, che già nel suo cognome quasi impronunciabile, Beiderbecke, portava in eredità l’Europa della sua famiglia d’origine.

In ultimo dovremmo dire del grande debito che, all’opposto, il jazz ha verso musica colta europea, la conoscenza della quale era esibita come orgogliosa superiorità da molti jazzisti; ricordo molto bene, nelle biografie di Miles Davis, quanto l’iscrizione alla Juilliard School di New York rappresentasse un elemento di competizione sociale cui tendeva tutta la famiglia e quanto questo divenisse poi facilitazione estrema di rapporto ed integrazione con musicisti bianchi che a questo retroterra sempre si riferivano: esemplare, al riguardo, fu l’incontro di Davis con Bill Evans che permise al jazz di scrivere alcune delle pagine più belle della sua storia.

Non è un caso che spesso l’appassionato dell’uno lo sia anche dell’altra (chi scrive è fra questi) e ancora meno casuale è l’intreccio tra i due grandi domini musicali, che vanta referenze illimitate: già Scott Joplin, antesignano del jazz col suo ragtime, poneva al centro della sua composizione i collegamenti con la tradizione e la cultura africana e il riferimento a Wagner e alla tradizione romantica tedesca della metà dell’800. Per mia parte, ricordo con emozione quando, molto tempo dopo, ascoltando per la prima volta con un amico una delle composizioni più belle proprio di Bill Evans, ci sorprendemmo divertiti ad esclamare, nello stesso momento e con lo stesso stupore: “I Notturni di Chopin!” e di lì partì, quasi a scommessa, la gara a cogliere nei tanti dischi masticati fino all’esaurimento della puntina, gli incroci, i debiti e le ispirazioni che il jazz, nato negli anni tra il 1910 e il 1913 proprio quando il processo di rinnovamento della Musica Classica si esaurì, a questa deve comunque. Ma senza dimenticare di quanto a sua volta esso sia creditore della portata innovativa conferita ad ogni paese e tradizione ai quali si è applicato.

L’universalità dell’espressione e delle genti era nei genomi di questa musica, e nulla avrebbe potuto cambiare le cose: questa la risposta sicura che si evince tracciando il percorso del jazz dal traffico di schiavi nella Costa d’Oro alle pianure del sud statunitense e di qui oltre la Manica e Gibilterra, fino al ritorno di là dell’Atlantico e alla nuova ripartenza per i fiordi del nord o le pampas argentine. Impossibile afferrare il jazz, nel suo equilibrio di improvvisazione, unità di stile, internazionalità delle risorse. Facile riconoscerne le impronte, facilissimo goderne.

WebMichi Quartet

Gli Eternauti (viaggiatori del tempo e dello spazio con i quali si è instaurata una piacevole collaborazione) danno spesso vita a discussioni interessanti nelle quali l'individualità dei singolo "contendente", lungi dal frantumarla, arricchisce l'idea di fondo di nuove nuove sfumature ed approfondimenti. Monsieur le Swing nasce da uno di questi spesso lunghissimi scambi.
Nella firma (volutamente rappresentazione del "collaborative-working") si celano gli amici Ravel, El Aleph, Nick The Toll e WebMichi.

Miles Davis

Miles Davis




Django Reinhardt

Django Reinhardt




Sidney Bechet

Sidney Bechet




Duke Ellington

Duke Ellington




Charlie Parker e Dizzy Gillespie

Charlie Parker e Dizzy Gillespie