MUSICA

Rolling Stones

Hyde Park (Londra) - 6 luglio 2013

Alla fine sul prato non rimane altro che un mucchio di spazzatura. Nulla a che vedere con le distese d’erba soffici e invitanti che gli altri parchi londinesi sanno offrire. Qui anche un semplice e piccolo parchetto a malapena segnato sulla mappa, sa invitare chiunque a passarci in mezzo per stendersi e godersi un po’ quest’erba inglese di cui tanto si parla. Forse anche Hyde Park potrà offrire le stesse cose, ma non dopo i concerti che vi si svolgono abitualmente. Su di questa distesa d’erba hanno suonato in molti. Dai Gong di Daevid Allen ai Blind Faith di Clapton e Winwood, sino a Springsteen la scorsa estate; fu quella l’occasione live londinese in cui il Boss, a fine concerto con tanto di Paul McCartney come ospite, si vide staccare la corrente per superati limiti di orario concessi. Springsteen suona tanto durante i suoi set, e a Londra i concerti iniziano ben prima che da noi. Oltre la Manica il sole è ancora alto quando i musicisti salgono sul palco, quindi chissà che lunghissima esibizione avrà fatto per far scaturire l’addetto all’interruttore generale.

Questa però è un'altra storia, ora dobbiamo parlare di qualcuno che dopo ben quarantaquattro anni ritorna a suonare in questo storico luogo.

Sembra strano ma gli Stones, assenti dalla scene dal 2007, proprio per il loro cinquantenario, hanno deciso di non concedersi in un lungo, estenuante e onnipresente tour mondiale come erano soliti fare e come avevano abituato i loro fan.

Appena all’inizio del novembre 2012, con solo alcune settimane di preavviso annunciarono il loro ritorno per due spettacoli alla O2 Arena di Londra alla fine dello stesso mese, per poi spostarsi negli Usa per altre pochissime date nel mese successivo. Si parlò di un ingaggio da capogiro per ogni singola data. Tutto esaurito in prevendita con cifre da infarto per i tagliandi messi a disposizione da iene del bagarinaggio spinto, quanto benedetto da siti nati appositamente che stanno spopolando on line senza ritegno alcuno.

Non tanto diversamente andò a finire per questa tornata estiva europea, per la quale le storiche Pietre Rotolanti hanno concesso un live al 29 di giugno al Glastonbury Festival (prima presenza in tutta la loro esistenza a questo storico evento), e una data adHyde Park al 6 luglio; appuntamento replicato una settimana dopo vista la grossa richiesta da parte del pubblico. Oltre oceano, tra gli States e il Canada, le cose sono andate diversamente; molte più date hanno soddisfatto l’esigenza degli spettatori. Forse in tempi di crisi c’erano dei promoter ben più spendaccioni e con un portafoglio gonfio rispetto a quanto ci si poteva permettere nel vecchio continente. Ma è strano. Comunque a Londra si ripresentano a poco più di quattro decadi dal quel loro unico passaggio ad Hyde Park, avvenuto il 5 luglio del 1969 davanti a 250 000 persone, a soli due giorni di distanza dalla morte di Brian Jones uscito dalla band nel corso dello stesso anno. Al suo posto c’era Mick Taylor, chitarrista dalle ottime doti con un curriculum di tutti rispetto, proveniente dalla scuderia di John Mayall.

All’epoca le cose erano ben diverse sotto diversi aspetti e oggi per gli Stones fare concerti, vuol dire tutt’altro che suonare e la distesa di persone che li attende è comunque immensa. Assistere ad un loro live significa armarsi di binocolo per poter dire di averli visti almeno un poco. Altrimenti bisogna ammazzarsi nella calca, stare sotto il sole e trattenere ogni bisogno perché una volta usciti dal mare è quasi impossibile riguadagnare la posizione perduta.

Difatti un po’ mi pento di averli voluti vedere questa volta. Un po’ perché l’estenuante ricerca di un biglietto in giro per il mondo mi ha lasciato con ben poco fiato (e data la sua reperibilità dell’ultimo secondo, ho pattuito la spedizione in albergo), un po’ perché mi sono abituato ad andare a vedere concerti da club o da impianti delle dimensioni ridotte, dove non solo ti godi lo show come si deve ma la situazione in generale è molto più vivibile e molto, ma molto meno dispersiva. Avrei potuto quindi andarli a vedere in novembre all’arena. Lo sforzo per trovare un tagliando non sarebbe stato tanto diverso, si trattava di un tutto esaurito da 20.000 persone, e anche se avessi pagato di più, data la struttura a capienza ridotta, son sicuro che ne sarebbe valsa la pena.

Alle ore 20.30 in punto, l’annuncio dello speaker “Ladies and gentlemen, The Rolling Stones”. Ed eccoli, i Signori del Rock. 278 anni in quattro con una media di 69 anni e mezzo a testa. Ma dove trovano la voglia di farlo ancora? Dove pescano la forza? In un documentario di fine anni ’90 se non vado errato, un giornalista a loro molto vicino disse che il segreto della loro longevità sta nel non poter fare l’uno a meno dell’altro. Non sanno fare nient’altro che suonare assieme. L’uno compensa l’altro. Sono la band più longeva della storia, anche se negli anni ’80 davvero bui per loro, il limite della sopportazione lo avevano ben superato. Rivalità, carriere soliste, qualche screzio e tanti anni assieme inevitabilmente portano alla rottura. E loro c’erano andati vicini. Sembra che Bill Wyman, per le sessioni di Dirty Work si facesse vedere poco anche per registrare. Poi nel 1992 invece se ne andò perchè stanco di tutto l’ambaradan e dei fastosi tour che solamente i Pink Floyd erano capaci di eguagliare. Solo queste due band potevano fare concerti simili, proprio queste due li avevano inventati.

Due anni fa invece, recensendo un progetto multi artista al quale prese parte Mick Jagger, qualcuno scrisse riferendosi a lui, “che si sia stancato degli altri Stones?”. A parte che Jagger vanta alcuni dischi solisti spalmati dal 1985 al 2001 e una collaborazione con David Bowie, ma dopo tutto questi anni uno si stanca solamente adesso del suo vecchio ambiente da lavoro?

Il palco è allestito in modo da rievocare un foresta, dimora del gorilla con la linguaccia, quel gorilla scelto come cover dell’antologia GRRR! raccolta di vecchi successi con due soli inediti, Doom and Gloom e One more shot. Ma quanta banalità in titolo e copertina, come anche i nomi dei tour: No security (1999), Licks (2002-2003), A Bigger Bang (2006-2007) e appunto l’attuale 50 & Counting. Peccato perché potrebbero fare spettacoli solamente per il gusto di farli e senza la necessità di dover sfornare nuovi lavori che in alcuni casi difficilmente soddisfano. Però non funziona così.

Si attacca con Start me up Richards irrompe sulla scena con l’inconfondibile riff suonato nelle note non propriamente corrette e soprattutto lente. La lentezza sarà alla base quasi tutto lo show.

Una scaletta scontata e prevedibile quella dell’esibizione, ma non potevano fare altrimenti. E’ ovvio che con tutti i successi tra i quali possono scegliere, possono avere qualche difficoltà nel comporla ma le loro hit sono quelle e non si scappa. Quindi concediamogli la grazia in questo caso.

Da anni ormai sul palco, oltre a Mick Jagger, Charlie Watts, Keith Richards e Ronnie Wood ci sono tra gli altri Darryl Jones al basso dal 1993, successivamente all’abbandono di Bill Wyman per dedicarsi ai suoi squisiti The Rhythm Kings, e la vocalist Lisa Fisher tanto per citarne alcuni dell’ormai grande famiglia.

Ci si aspetta qualche ospite che non tarda ad arrivare. Mick Taylor, che già aveva fatto la sua comparsa durante le appena trascorse date negli Usa (appare come special guest di tutto il tour), sale sul palco poco dopo metà concerto per Midnight Rambler e la musica prende una piega diversa e molto più piacevole. Fa strano vedere Wood e Taylor suonare assieme sullo stesso palco; il primo sostituì il secondo nel 1975. Wood divenne però componente effettivo degli Stones solamente alcuni anni dopo.

Troppo lunghe le pause tra un brano e l’altro, forse stanno pagando la stanchezza del tour americano. Anche la presentazione della band a seguire di Honky Tonk Women, appare molto fiacca. In alcuni casi gli accordi che si lasciano sfuggire prima di iniziare a suonare il brano successivo, fanno intendere al pubblico quale fosse la prossima canzone in scaletta. Queste sbavature non ci stanno per niente in uno spettacolo e Jagger con la voce non sembra andare troppo accordo a momenti. Anche la Fisher durante il suo assolo, ci lascia un po’ desiderosi di voler avere qualcosa di più.

Però gli Stones sono gli Stones, C’è poco da fare. Sono la storia, e vedere questi nonnetti suonare ti fa sorridere e venir voglia di ascoltarli ancora. Jagger è asciutto in un fisico invidiabile, e vedere Watts da dietro la sua batteria sempre in maglietta, a colpire piatti e tamburi, è una goduria. Ronnie Wood è una sagoma, un mattacchione. Con quella capigliatura sembra essersi calato in testa uno strano copricapo. Proprio lui, il più giovane di tutti gli altri, quello che correva a casa da scuola per vedere alla tv gli Stones, era una conoscenza di vecchia data della band al momento della sua entrata. Con il suo spirito aveva riportato in mezzo al gruppo una ventata di ossigeno, oltre che possedere le doti giuste per creare l’alchimia idonea per suonare con Richards, l’icona Rock per antonomasia. Una vita, quella di Richards, spesa tra gli eccessi a correre sempre ad alta velocità e a combinarne di ogni tipo. Tutte quelle volte che ha fatto tremare i fan degli Stones. Come con il suo arresto per il quale si temette per la fine della band, o quelle volte in cui mise a repentaglio interi tour per incidenti occasionali come cadere dalla scala o da un albero. Per fortuna si trattò solo di posticipi di partenze dei tour. Arrogante e strafottente sul palco mentre suona, si avvicina all’amplificatore, stacca le mani dalla chitarra per accendersi una sempre presente sigaretta. Stesso atteggiamento di un ragazzo convinto e pieno di se, davanti al proprio pubblico. Con la sola differenza che Richards tutto questo se lo può permettere.

Il pubblico si scalda verso tre quarti di set con Sympathy for the Devil, emblema della loro trasgressione giovanile che strizzava l’occhio al maligno in perfetto stile blues del Delta del Mississipi come vuole la tradizione dei vecchi bluesman neri. Devozione satanica e occulta quella degli Stones, del tutto passeggera, occasionale e di circostanza se paragonata a quanto messo in atto da alcuni altri loro colleghi ben più interessati e dediti a ricerche e rituali.

Chiusura, dopo l’inevitabile ritorno sul palco, con un’inaspettata versione di You can’t always get what you want con la partecipazione del Voice Chamber Choir, e la sempre verde (I can get no) Satisfaction con Taylor nuovamente sul palco non solo per eseguire il brano ma anche per i saluti finali assieme agli altri quattro.

Chissà come sarebbero andate le cose cinquant’anni fa se non più, se chi prima di loro, un certo Alexis Korner (con il quale Charlie Watts suonava e poi sostituito da Ginger Baker), non avesse aperto la breccia e aiutato non poco l’Europa a conoscere il Blues e tutta quella schiera di artisti neri tra i quali lo stesso Muddy Waters che per gli Stones è stato un padrino per certi versi? Cosa sarebbe successo se invece di Watts, a suonare la batteria ci fosse stato Carlo Little (altro batterista che ha schivato la storia per un soffio e che avrà sbattuto la testa contro il muro per anni)? Se non fosse avvenuto il divorzio con Jones? E se invece di Taylor ci fosse stato qualcun altro? Proviamo ad immaginare, cosa sarebbe potuto accedere se invece di Wood, al suo posto ci fosse stato Jeff Beck che aveva preso parte ai provini (a detta di Watts, i due erano pari in fatto di bravura ma l’attuale secondo chitarrista caratterialmente era molto più gestibile).

Che piega avrebbero preso i fatti se passato quel loro periodo pessimo degli anni ’80 non fossero rinati dalle loro stesse ceneri come una fenice? Quante domande o ipotesi potremmo ancora porci? Sono stati tra i primi, erano presenti nei momenti salienti della formazione del mondo del Rock, dalla sua nascita negli anni ’60 e lo hanno fatto crescere nei ’70. Tutt’ora lo accompagnano per il suo percorso. E sono gli unici rimasti di quella nutrita schiera del Rock Britannico senza essersi sbriciolati.

Che siano vecchi non ha importanza, loro sono il Rock and Roll, e senza di loro oggi non avremmo tutto quello che la musica ha avuto, e la musica non sarebbe quella che è. Saranno forse banali oggi dì e lo sarò anch’io con queste ultime parole che vado a scrivere, ma lo cantavano loro stessi e non c’è altra spiegazione più semplice. It’s only Rock and Roll but i like it.

di Cristiano Pellizzaro - La Tana dei Gechi




Rolling Stones



La scaletta del concerto:

Start Me Up
It’s Only Rock ‘n’ Roll (But I Like It)
Tumbling Dice
All Down the Line
Beast of Burden
Doom and Gloom
Bitch (con Gary Clark Jr.)
Paint It Black
Honky Tonk Women
You Got the Silver
Before They Make Me Run
Miss You
Midnight Rambler (con Mick Taylor)
Gimme Shelter
Jumpin’ Jack Flash
Sympathy for the Devil
Brown Sugar
You Can’t Always Get What You Want (con il London Youth Choir)
(I Can’t Get No) Satisfaction (con Mick Taylor)






La Formazione
Mick Jagger – voce, chitarra, armonica a bocca
Keith Richards – chitarra, voce
Ronnie Woodv – chitarra
Charlie Watts – batteria
Musicisti aggiuntivi
Mick Taylor – chitarra in Midnight Rambler, chitarra acustica e cori in (I Can't Get No) Satisfaction
Darryl Jones – basso, cori
Chuck Leavell – tastiere, percussioni, cori
Bernard Fowler – cori, percussioni
Lisa Fischer – cori
Bobby Keys – sassofono
Tim Ries – sassofono, tastiere
Matt Clifford– corno inglese, tastiere





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