MUSICA

Tutti Morimmo a Stento

Fabrizio De Andrè

recensione

....... ingoiando l'ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce.......

Una vecchia recensione, del 2004, se non sbaglio, che ho voluto rivisitare. Anzi, che ho "potuto" rivisitare, grazie all'età che (forse) mi ha equilibrato e mi permette di parlar di De Andrè, del suo Pensiero, della sua Poesia, in modo comprensibile, senza sentirmi affogata nella folla di sentimenti che Faber mi ha sempre provocato e mi provoca.

Tutti Morimmo a Stento esce nel 1970, con il sottotitolo “Cantata in si minore per coro e orchestra”. I testi e le musiche sono di Fabrizio De Andrè, tranne “Cantico dei Drogati” (De Andrè e Mannerini) mentre la “Leggenda di Natale” è ispirata a La Pére Noel e la Petite Fille di Brassens. E' uno dei primi concet italiani, uno di quegli album, cioè, nei quali ogni traccia/brano si lega alle altre e tutte assieme formano un racconto unico, come i capitoli di un libro, ed anche dal punto di vista musicale sono presenti delle "riprese" che legano assieme anche il concetto musicale espresso. Prerogativa del rock progressivo. Ma era un cantautore progressive, De Andrè? Si, vista la premessa sul "concept", si, visto il ritorno di un motivo conduttore che si innesta tra i brani, ma ancora manca lo sviluppo della parte musicale, gli arrangiamenti, i pezzi puramente strumentali ad ampio respiro, le suite. L'incontro artistico con la PFMche inizierà nel 1970 con La Buona Novella segnerà una svolta nella musica (arrangiamenti,soprattutto) di Faber e da quel punto in poi, si, negli album "concept" si potrà parlare di progressive.

All’interno una presentazione di Cesare Romano che non lessi: per me Faber era una questione privata, al di là delle spiegazioni e motivazioni. Forse, respirando quegli anni, la mia lettura era esatta, forse era parziale come può esserlo quella di una quattordicenne circondata da una società in lotta, dove il dialogo non esisteva né si cercava tanto erano distanti tra loro gli antagonisti. Da una parte il “potere costituito” (stato, genitori, bacchettoni all’insegna del “NO”) dall’altra un’orda più o meno variegata di ragazzi che andavano, ma non sapevano dove, riempiendosi la bocca di slogan, che spesso non capivano, ed il cervello di fumo o d’altro. Una forma di nichilismo in preparazione della nascita di una società nuova, giusta ed umana.

Età oscura e pericolosa, dove si cercavano nuovi ideali, nuovi riti di passaggio. E poiché il verbo era “O con noi o contro di noi”, la legge del branco passava spesso attraverso la droga, forza catalizzante con un potere distruttivo enorme, ma che significava per molti identità, sicurezza di appartenenza e, ovviamente, fuga da qualcosa che spaventava.

Chiudo qui questa pseudo presentazione assolutamente personale e quindi totalmente discutibile, col dire che ancora una volta la voce di Faber rimase fuori dal coro, anarchica.

Una voce che non scendeva in piazza, non recitava slogan ma andava avanti per la sua strada a farci da coscienza. Il ruolo non è mutato negli anni, a controprova che le sue parole sono verità assolute, non legate a stereotipi o mode.

Ho scelto di parlarvi non di tutti i brani dell'album, ma di quelli che, dal mio personale punto di vista, ritengo più centrati e che, semplicemente, erano e sono più attinenti al mio modo di sentire, ma prima ancora di passare ai brani, vorrei soffermarmi (e farvi soffermare) sul titolo: Tutti morimmo a stento. Non c'è nulla che vi colpisca? Neppure il tempo verbale (passato remoto!) per un verbo come morire declinato alla terza persona plurale, noi?

E' la nostra stessa umanità ad unirci, a segnare un continuum eterno di vite e sofferenze, o gioie e la morte di altri uomini, non importa di quale tempo, in quale luogo, è anche la mia, la tua, quella di tutti noi. Per contro, ma a completamento, quasi, dello stesso concetto, per Faber la morte fisica era, in fondo, ben poca cosa: la morte vera era quella dell'anima. Dell'album Faber diceva:

"Parla di morte .. Non della morte cicca [sic], ma di quella psicologica, morale, mentale, che un uomo normale può incontrare durante la sua vita. DIrei che una persona comune, ciascuno di noi forse, mentre vive si imbatte diverse volte in questo genere, in questo tipo di morte, in questi vari tipi, anzi, di morte. Così, quando tu perdi un lavoro, quando perdi un amico, muori un po'; tant'è vero che devi un po' rinascere, dopo.
(da Cantico per i diversi, intervista a cura di Roberto Cappelli)


Cantico dei drogati

Altro non è se non la presa di coscienza della propria autodistruzione totale.

La voce racconta e la musica la segue e ne sottolinea gli umori. Racconta di una vita in fuga verso orizzonti in un viaggio fasullo e suicida. Racconta della nostalgia di cose semplici, come il vento che sussurra tra le foglie. Racconta di incubi irreali, ma più veri della realtà, che perseguitano e che spogliano l’essere umano da tutto ciò che umano lo rendeva. Dove, come trovare il coraggio di ammettere d’aver paura con la propria madre, simbolo di amore anche per chi ha perduto la capacità di amare.

Non un'accusa, perchè il drogato, del quale si parla, siamo tutti noi (TUTTI morimmo a stento) e perchè, comunque, Faber non ha mai accusato.

Ho licenziato Dio
gettato via un amore

Spesso è stato detto che De Andrè fosse ateo, in realtà in Dio De Andrè "voleva sperarci" in un Dio, un'entità superiore:

“C’è chi è toccato dalla fede e chi si limita a coltivare la virtù della speranza [...]. Il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle ipocrite preci collettive, un Dio che dovrebbe sostituirsi alla così detta giustizia terrena in cui non nutro alcuna fiducia alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell’amore” (cfr. Buscadero , n. 175, dicembre 1996).

Ed i brani in cui parla di Dio sono circa un'ottantina

Ma cosa c'è dietro a quell'aver licenziato Dio e, consapevolmente, l'aver buttato via un'amore? Per cosa, poi?

per costruirmi un vuoto
nell'anima e nel cuore

Sempre nell'intervista a Cappelli De Andrè dice:

Scrivere il Cantico dei drogati, per me che avevo una tale dipendenza dall'alcol, ebbe un valore liberatorio, catartico. Però il testo non mi spaventava, anzi, ero compiaciuto. È una reazione frequente, tra i drogati, quella di compiacersi del fatto di drogarsi. Io mi compiacevo di bere, anche perché grazie all'alcol la fantasia viaggiava sbrigliatissima. .... omissis ........... Con il Cantico mi rappresentavo e mi liberavo dell'imbarazzo di essere considerato un alcolizzato. "Tu che mi ascolti /insegnai / un alfabeto che sia / differente da quello / della mia vigliaccheria". Non è che io mi dia soltanto del vigliacco, non è una preghiera. È un modo di dire: "Tu che ti ritieni tanto furbo, insegnami un modo di comportarmi". Questo è un discorso delicato, perché c'è il rischio di fare l'apologia della droga, ma non c'è dubbio che le droghe potenzino la capacità creativa delle persone, perché disinibiscono, e la creatività, come qualsiasi attività umana, è fortemente ostacolata dalle inibizioni.

Dopo le parole di Faber, che altro poter aggiungere?


La ballata degli impiccati

E’ la storia di tutti i condannati a morte per qualsiasi reato, di tutti i tempi, di tutte le razze, di tutte le religioni. Per il male fatto in un’ora la società umana, arrogandosi il potere che solo Dio dovrebbe avere, si è presa la loro vita.

Tutti morimmo a stento
ingoiando l'ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce.

L’inizio è il racconto dell’agonia, con quel “Tutti morimmo a stento” che dà il titolo all’album e che in quel “TUTTI”, sottolineato sia dalla voce di un De Andrè che non ammette repliche, sia dalla musica, comprende tutto il genere umano. In fondo è una promessa anche per i sopravvissuti, per i probi, per gli onesti.

Ed io l’ho sempre letta, anche nei versi successivi dove l’ultimo urlo, tanto potente quanto silenzioso, travolge il sole e le parole diventano cristalli immutabili nello spazio e nel tempo, come un richiamo non detto alla morte del Cristo.

In fondo, cosa c'è di diverso? E’ stato ucciso anch’egli dalla giustizia dell’uomo.

Ma il resto è una maledizione per ognuno di coloro che restano, che sfuggono alla tragedia con la derisione, l’insensibilità, la vergogna di dar memoria.

Come i 12 apostoli?

Ed è anche una promessa di vendetta: tutti dovremo morire e per tutti l’aria diventerà stretta.


Recitativo (due invocazioni ed un atto di accusa)

Le invocazioni sono rivolte ai potenti, ai semidei, a coloro che vivono staccati dall’umana angoscia, ai ricchi ed opulenti; la richiesta, semplice, umana, che proviene dal popolo dei derelitti (drogati e traviate) è di aver pietà.

C’è una domanda rivolta ai giudici (ma a tutti noi). Una domanda di un candore quasi infantile ma che in realtà sale da ogni cellula del nostro corpo, tanto è grande la ripulsa che ogni uomo prova già solo nel porla: ”Quanto giusta credete che sia una condanna che decreta morte?”

Alla fine il monito terribile, che non dà scampo e che dovrebbe accompagnarci in ogni istante della nostra esistenza: “Sappiate che la morte vi sorveglia”

Accusati e accusatori, vili ed eroi, colpevoli e innocenti, santi e malvagi, miserabili e potenti: alla fine la falce accomuna tutti.

Uomini, poiché all'ultimo minuto
non vi assalga il rimorso ormai tardivo
per non aver pietà giammai avuto
e non diventi rantolo il respiro:
sappiate che la morte vi sorveglia
gioir nei prati o fra i muri di calce,
come crescere il gran guarda il villano
finché non sia maturo per la falce.

Perché continuiamo a scordarcelo?.

Grazie Fabrizio.

Rosalba Crosilla

Pubblicato nel 2004 - rivisitato nel 2012